Ciao! Per motivi di tempo e spazio (e riposo!) la newsletter di questo mese non uscirà nella sua forma solita. Ci tenevo particolarmente però a lasciarvi un brano di Natalia Ginzburg che sembra essere scritto ai giorni nostri.
Si intitola “La pigrizia”, l’ho riportato integralmente qualche paragrafo più in basso. Ogni tanto me lo rileggo, per sentirmi meno spaesata, ed è uno di quei brani che aiuta, secondo me, ad avere uno sguardo più compassionevole nei nostri confronti.
Accade infatti che dalla famiglia, dai pari, dal contesto sociale, economico o culturale abbiamo interiorizzato un qualche tipo di credenza che suona più o meno così: “non fermarti!” a cui poi associamo quelle che sono le nostre fatiche personali: chi corre, si sfinisce di impegni perchè non vuole sentire il dolore sottostante; chi perchè non vuole rimanere “escluso” (ad esempio, la famigerata “fear of missing out”), chi per timori esistenziali di vario tipo. Potrei andare avanti a riempire l’elenco per diverse altre righe.
Fermarsi, in questo strano ordine delle cose, può avere diversi significati.
Potrebbe voler dire fallire - che poi cosa significa “fallire”? come dice una mia amica, è solo un’indicazione: stop! ritenta! un po’ come una strada chiusa per i lavori in corso che ci costringe a cambiare strada, ma è solo una delle possibili strade.
Potrebbe voler dire stare con quello con cui non si può stare perchè è disorganizzante e intollerabile; stare con quello con cui non vogliamo stare perchè semplicemente ci fa provare dolore, o perchè è qualcosa di incerto. Noi umani questo devastante timore dell’incertezza ce l’abbiamo letteralmente incarnato - embodied - perchè dal punto di vista evoluzionistico incertezza = meno possibilità di sopravvivere. Per questo secondo alcune teorie noi umani siamo “macchine predittive” e costruiamo poi il nostro mondo e le nostre relazioni dotandole di significati.
Potrebbe significare ammettere di non farcela. Non farcela da solə, non farcela con i tempi, con incombenze varie ed eventuali, perchè non ci pensiamo spesso al fatto che abbiamo dei limiti.
Significa, altre volte, fare i conti con il rallentare, inteso anche come fare di meno. Qui per alcunə di noi subentra lo spettro della famigerata “pigrizia”, che ci parla dello sguardo carico di giudizio, poco compassionevole appunto, riservato non solo alle persone esterne che ci circondano ma anche, e soprattutto, a noi stessə, in molteplici ambiti della nostra vita. Ci parla, inoltre, del timore che abbiamo di “essere scoperti” come persone che “non valgono nulla” o che “segretamente sono delle brutte persone”, che “non sanno fare il loro lavoro/essere brave amiche/partner/genitori/figli…”
Invece, al contrario, potrebbe parlarci dell’elevata sensibilità e senso di responsabilità che abbiamo per qualcosa. Solo che ci imponiamo standard molto elevati perchè siamo convinti che “gli altri faranno molto meglio”. Però, chissà, anche questi “altri” pensano esattamente la stessa cosa di noi. Capite dove voglio arrivare? Ribaltare il proprio punto di vista potrebbe essere utile a far sentire ascoltata una parte che ci vuole sempre sul pezzo ed infallibili, così non è costretta a pensare ad altro, oppure perchè ci tiene particolarmente alla gratificazione altrui. E da qui, ripartire e potersi mettere in ascolto: questa parte che ha timore di scivolare nel “buco nero della pigrizia” in realtà magari vuole solo la nostra attenzione, oppure ci sta proteggendo - in ogni caso, ha un senso che sia lì.
In questa sede, come sempre, non pretendo di avere alcuna risposta.
Lascio volentieri la parola ad una delle mie scrittrici preferite, e ricordo che quando per la prima volta lessi queste righe mi scoprii a provare una specie di conforto, come avere una tazza di tisana tra le mani quando fuori piove. Scoprii che il senso di inadeguatezza costante che provavo non era per niente fuori luogo e che forse è comune tra la maggior parte delle persone che abitano il nostro tempo.
Buona lettura, ci sentiamo ad aprile.
Abbiate cura di voi!
Nel ’44, nel mese di ottobre, venni a Roma per trovare lavoro. Mio marito era morto nell’inverno. A Roma aveva sede una casa editrice, dove mio marito aveva lavorato per anni. L’editore si trovava allora in Svizzera; ma la casa editrice, subito dopo la liberazione di Roma, aveva ripreso la sua attività.
Pensavo che, se avessi chiesto di lavorare in quella casa editrice, m’avrebbero dato lavoro; e tuttavia il chiederlo mi pesava, perché pensavo che mi sarebbe stato dato per compassione, essendo io vedova, e con figli da mantenere; avrei voluto che qualcuno mi desse un posto senza conoscermi e per le mie competenze.
Il male era che io competenze non ne avevo. Avevo intrattenuto questi pensieri nei mesi dell’occupazione tedesca. Ero allora con i miei bambini nella campagna toscana. Di là era passata la guerra, poi era sopravvenuto il silenzio che succede alla guerra, e infine, nella campagna immota e sui villaggi sconvolti, erano arrivati gli americani. Noi ci trasferimmo a Firenze; lasciai i bambini con i miei genitori e venni a Roma.
Volevo lavorare perché non avevo soldi; tuttavia, se fossi rimasta con i miei genitori, avrei ugualmente potuto vivere. Ma l’idea d’essere mantenuta dai miei genitori mi pesava moltissimo; inoltre volevo che i miei bambini riavessero una casa con me. Da tempo, noi non avevamo più casa. Avevamo vissuto in quei mesi di guerra o da parenti o amici, o in conventi o alberghi. Viaggiando verso Roma in una macchina che ogni mezz’ora si fermava, carezzavo sogni di lavori avventurosi, come fare la bambinaia, o fare la cronaca nera in un quotidiano.
L’ostacolo principale ai miei propositi di lavoro, consisteva nel fatto che non sapevo far niente. Non avevo mai preso la laurea, essendomi fermata davanti a una bocciatura in latino (materia in cui, in quegli anni, non veniva bocciato nessuno). Non sapevo lingue straniere, a parte un po’ il francese, e non sapevo scrivere a macchina. Nella mia vita, salvo allevare i miei propri bambini, fare le faccende domestiche con estrema lentezza e inettitudine, e scrivere dei romanzi, non avevo mai fatto niente. Inoltre ero stata sempre molto pigra.
La mia pigrizia non consisteva nel dormire tardi al mattino (mi sono sempre svegliata all’alba e alzarmi non m’è mai costato nulla) ma nel perdere un tempo infinito oziando e fantasticando. Questo aveva fatto sì che io non riuscissi a portare a termine alcuno studio o fatica. Mi dissi che era venuta l’ora per me di strapparmi a questo difetto. L’idea di rivolgermi a quella casa editrice, dove mi avrebbero accolto per pietà e comprensione, mi parve a un tratto la più logica e attuabile, benché mi fossero pesanti i motivi per cui m’avrebbero accolta. Avevo letto in quell’epoca un libro, che mi sembrava bello: era Jeunesse sans Dieu, di Ödön von Horváth, autore di cui non sapevo nulla, se non che era morto giovane sotto il crollo d’un albero, a Parigi, uscendo da un cinema. Pensai che, non appena fossi entrata in quella casa editrice, avrei tradotto e fatto pubblicare quel libro che amavo molto.
A Roma, presi una camera in una pensione vicino a Santa Maria Maggiore. Il pregio essenziale di quella pensione era che non costava quasi niente. Sapevo per esperienza che, in quegli anni di guerra e dopoguerra, le pensioni diventavano facilmente qualcosa di simile alle caserme e agli appartamenti. Quella era una via di mezzo fra pensione e collegio. Vi soggiornavano studenti, sfollati e vecchi senza casa. Nelle scale echeggiava ogni tanto un gong, dal suono profondo e sordo, che chiamava persone al telefono. Si consumavano nella sala da pranzo comune pasti frugali, composti di formaggio Roma, castagne bollite e broccoletti. Nel corso dei pasti, ogni tanto squillava una campanella e la direttrice della pensione leggeva alcuni suoi pensieri di esortazione alla semplicità.
Parlai con un amico, che dirigeva quella casa editrice in assenza dell’editore. L’amico era piccolo e grasso, rotondo e rimbalzante come una palla. Quando sorrideva, mille piccole rughe increspavano la sua faccia di bambino cinese, pallida, furba e dolce. Oltre alla casa editrice aveva altre innumeri attività. Mi disse che m’avrebbe assunto per ora a mezzo impiego; quando fosse tornato l’editore, la mia situazione sarebbe stata definita con maggior chiarezza. Mi disse di venire all’ufficio il mattino dopo: e mi disse che nella mia stessa pensione abitava una ragazza, che lavorava anche lei nella casa editrice, con funzioni amministrative: e che io avrei potuto al mattino far la strada con lei.
Rientrata alla mia pensione, salii le scale e bussai a una stanza, due piani sopra la mia. M’aperse una ragazza graziosa, coi capelli bruni e ricciuti e le guance rosse. Le chiesi se potevamo, al mattino dopo, far la strada insieme. Mi rispose che doveva andare in non so che banca e così avrebbe preso un’altra strada. Era gentile, ma riservata e fredda. Ridiscesi le scale con un confuso senso di sconforto, e distrutta da un mortale complesso d’inferiorità. Quella ragazza doveva lavorare da anni, forse da sempre; e il suo lavoro era di ordine amministrativo, perciò ben definibile, incrollabile e necessario. Inoltre aveva con sé un fratellino di nove anni, che manteneva col suo lavoro. Io non sapevo se sarei stata in grado di mantenere i miei propri figli.
Passai una notte inquieta e piena di pensieri angosciosi. Mi dicevo che tutti, subito, vedendomi in quell’ufficio, avrebbero scoperto il grande mare di ignoranza e pigrizia che era in me. Pensavo all’amico che m’aveva assunta e all’editore lontano ma forse sulla via del ritorno. All’amico avevo cercato di spiegare che non avevo laurea di sorta, non sapevo l’inglese e non sapevo far nulla. Lui m’aveva risposto che non importava e che qualcosa avrei fatto.
Ma non gli avevo detto della mia pigrizia, di quel vizio che avevo di cadere nell’inerzia e nel sogno appena mi trovavo a dover fare qualcosa. Non avevo mai pensato a un simile vizio con vero orrore. Quella notte lo contemplai con spavento e con orrore profondo. Ero stata sempre una cattiva scolara. Tutto quello che avevo cominciato era rimasto in sospeso. Mi risuonarono alle orecchie i versi di Villon:
Hé ! Dieu, si j’eusse étudié
Au temps de ma jeunesse folle
Et à bonnes meurs dédié,
J’eusse maison et couche molle !
Mais quoi ? Je fuyaie l’école,
Comme fait le mauvais enfant…In verità non sapevo neanche tanto bene il francese. La mia giovinezza era stata «folle», ma svogliata e confusa.
Al mattino arrivai a quello che doveva essere il mio ufficio: una villetta al pianterreno, circondata da un giardinetto. Vi trovai il mio amico, la ragazza con le guance rosse seduta davanti a una calcolatrice, e due dattilografe. Il mio amico mi fece sedere a un tavolo e mi consegnò un foglio dov’era scritto: «norme tipografiche». Seppi così che perché e affinché, ma tè e caffè e lacchè avevano l’accento grave. Poi mi diede un dattiloscritto: era una traduzione di Gösta Berling. Dovevo rivederne la forma italiana e mettere a posto gli accenti.
L’amico, rimbalzando per la stanza come una palla, mi disse che non dovevo crucciarmi se non avevo lauree, perché questo non avrebbe sdegnato il nostro ormai comune padrone, il quale neanche lui ne aveva una. Gli chiesi quale sarebbe stato, dopo Gösta Berling, il mio secondo lavoro. Con orrore m’accorsi che non lo sapeva. Avevo una tale paura di cadere nella pigrizia, che mi buttai su quella revisione e in tre giorni avevo finito. L’amico mi portò allora una copia francese delle memorie della moglie di Lenin. Ne tradussi a precipizio una trentina di pagine, ma poi l’amico mi disse che aveva cambiato idea e non si faceva più quel libro. Mi diede una traduzione di Homo ludens.
Un giorno sulla porta dell’ufficio mi trovai davanti l’editore. Lo conoscevo da tempo, ma non ci eravamo mai scambiati più di cinque parole. E negli anni che non ci eravamo visti, erano successe tante cose che adesso era come se ci incontrassimo per la prima volta. Lo sentivo amico e sconosciuto insieme. A questi sentimenti mescolava il pensiero che adesso era per me il padrone, cioè uno che poteva scacciarmi da quell’ufficio all’istante. Mi abbracciò e arrosì, perché era timido e sembrava contento e non troppo stupito che io lavorassi lì.
Mi disse che sperava da me progetti e idee. Strozzata dalla timidezza e dall’emozione, gli dissi che si poteva forse tradurre e pubblicare Jeunesse sans Dieu. Non sapeva nulla di quel libro e gli dissi in fretta la storia del cinema e del crollo dell’albero. Aveva molte cose da fare e fuggì via subito. Nei giorni che seguirono, non lo rividi più, ma la ragazza con le guance rosse venne a dirmi che ero stata assunta a pieno impiego. Non parlavo mai con quella ragazza, ma incontrandoci nel corridoio ci facevamo sorrisi, unite da ricordi e prospettive di squilli di campanella e broccoletti.
Un giorno appresi che stavamo per trasferirci in una sede nuova. Ne fui dispiaciuta perché mi ero affezionata a quell’ufficio, e soprattutto a un alberello di mandarini, che vedevo dalla mia finestra. Il nuovo ufficio era nel centro. C’erano stanze immense, con tappeti e poltrone. Io chiesi di avere per me uno stanzino in fondo a un corridoio. Là sarei stata sola, e potevo imparare a lavorare, perché la sensazione di non essere buona di lavorare mi perseguitava sempre. L’amico si era rifugiato anche lui in una stanza da solo.
Le stanze si erano riempite a poco a poco di nuove dattilografe e nuovi impiegati. I nuovi impiegati passeggiavano febbrilmente avanti e indietro sui tappeti e dettavano alle dattilografe pagine e pagine di cui io coglievo, passando, parole di cui non capivo nulla. Oppure si intrattenevano in salotto con visitatori in misteriosi colloqui. L’amico mi disse che tutti quei nuovi impiegati e tutte quelle nuove dattilografe lui li giudicava inutili. Giudicava anche inutili i tappeti, il salotto, i visitatori e i colloqui. Capii che i nuovi impiegati avevano idee politiche diverse dalle sue. Egli appariva depresso, e non rimbalzava più, ma sedeva appartato e immobile al suo tavolo e il suo viso che non s’increspava più a sorridere appariva smorto e triste come la luna. Vedendolo sconfortato e afflosciato ebbi a un tratto la sensazione che fosse come me e forse più di me ammalato d’una sconfinata pigrizia.
Mi sentivo molto sola in quell’ufficio e non rivolgevo mai parola a nessuno. La mia costante preoccupazione era che non venisse scoperta la mia grande ignoranza e la mia grande pigrizia, e la mia assoluta assenza di idee. Quando riuscii a far chiedere i diritti di Jeunesse sans Dieu, seppi che erano già stati comprati da un altro editore. Era stata la mia sola idea e si era dispersa nel vento. Per difendermi dalla pigrizia lavoravo con furia e vertigine, immersa in un totale isolamento e in perfetto silenzio. Soltanto, non smettevo di chiedermi se e come quel mio lavorare si allacciasse a quella vita intensa e per me incomprensibile di cui erano piene e formicolanti le stanze. Mi feci fare una chiave e venivo in ufficio anche la domenica.
— Ginzburg, N. (2016). Un’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988. Einaudi.
❤️❤️❤️
Non conoscevo questo brano, così poetico e gentile per parlare della vecchia malattia di non essere abbastanza. Anch’io soffro di quella pigrizia